Articolo pubblicato su La Rivista dell'Avvocatura - Periodico del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Caltanissetta


Lex e crux. Il Crocifisso simbolo dolente dell'errore giudiziario.


Il crocifisso resta nelle aule scolastiche. “ E’ un simbolo idoneo ad esprimere i valori civili – di tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, solidarietà - che delineano la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato “.
La giustizia amministrativa ha chiuso, così, la querelle sulla presenza del simbolo cristiano nelle scuole. 
Il Consiglio di Stato, con la recentissima sentenza del 15 febbraio scorso, ha respinto il ricorso di una donna finlandese, Soile Lautsi, che chiedeva la rimozione della croce dalla scuola media frequentata dei figli. La polemica andava avanti da tre anni. Ad avviarla fu il presidente dell'unione musulmani d'Italia, Adel Smith. Seguì il ricorso al Tar del Veneto della mamma di Abbano Terme. Il tribunale amministrativo si rivolse alla Consulta, che però decise per l’inammissibilità della questione: le norme del 1924 e del 1927 sugli arredi scolastici hanno natura di norme regolamentari e non sono di rango legislativo, quindi la questione di costituzionalità delle stesse è inammissibile. Infine, nell’aprile del 2004, la battaglia ingaggiata e persa dal giudice di Camerino, Luigi Tosti, contro il crocifisso in tribunale. 
Nella citata sentenza i giudici della sesta sezione di Palazzo Spada - presidente Giorgio Giovannini ed estensore Giuseppe Romeo -, confermando il no alla rimozione del crocifisso espresso dal Tar del Veneto, affermano che " il crocifisso può assumere diversi significati, anzitutto per il luogo in cui è posto. Se in luogo di culto è esclusivamente simbolo religioso, ma in una scuola svolge una funzione simbolica educativa a prescindere dalla fede professata dagli alunni. " E evidente - recita la decisione - che in Italia il crocifisso esprime l'origine religiosa dei valori che connotano la civiltà italiana, che hanno impregnato tradizioni, modo di vivere, cultura di un popolo. Valori che soggiacciono e che vengono dalle norme fondamentali della nostra costituzione.
Di fronte alla sentenza i pareri sono stati, ovviamente, discordi. Così, anche un giurista laico come Giuliano Vassalli, Presidente emerito della Consulta ed ex Guardasigilli, ha dichiarato di “ stare dalla parte delle tradizioni “. Altri costituzionalisti hanno ritenuto, invece, che se la norma sospettata di incostituzionalità, fosse stata di rango legislativo, la Corte certamente ne avrebbe dichiarato l'illegittimità, in base alla sua stessa giurisprudenza sul principio di laicità dello Stato, sancito dall'articolo 7 della carta costituzionale. Nel 1989, con la sentenza 203, infatti, i giudici delle leggi stabilirono che per laicità dello Stato s’intende anche parità di tutti i culti. 
Non è questa, comunque, la questione giuridica che intendo affrontare.
Credo che, in un’Italia moderata dal punto di vista laico e non fanatica dal punto di vista religioso, la questione possa e debba essere trattata pacatamente e serenamente.
Il simbolo religioso, in uno stato laico come il nostro, non è un randello ma un ramoscello. 
Certo, anche da credente, preferirei che il crocifisso non stesse sui muri ( o solo sui muri ), ma nei cuori. Ed è ovvio che questa sarebbe la soluzione laica del problema.
In punto di diritto la sentenza del Consiglio di Stato, che ha teorizzato che il crocifisso è simbolo di laicità, è suscettibile di facile critica. Dire che il crocifisso è cifra dello Stato laico è una motivazione che avrebbe entusiasmato Gorgia da Lentini.
Ma è pur vero che il crocifisso è un simbolo inseparabile dai nostri pensieri e dai nostri più profondi sentimenti; c'è un'identità tra la nostra civiltà e l'immagine del Cristo, il crocifisso è il profilo antropologico dell’occidente.
Ed è incontestabile, pure, che in certi casi staccare dal muro e togliere offende più che mettere o lasciare sul muro. 
La questione va sdrammatizzata evitando che clericali ed anticlericali si affrontino con molto oltranzismo in tempi in cui le cronache, purtroppo, registrano la pericolosa deriva del fanatismo, del fondamentalismo religioso e dell’intolleranza.
Ora, la mia riflessione prende le mosse dalla questione della presenza del simbolo cristiano nelle aule scolastiche, ma si appunta sul significato squisitamente laico ( e non religioso ) della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia. 
La prima notazione che mi viene spontanea è che non disdice all’austerità delle aule giudiziarie il Crocifisso.
Da sempre lo vediamo collocato alle spalle dei giudici, al di là dell’emiciclo ed al centro dell’aula, al di sopra della scritta che proclama il principio dell’isonomia. Ed esso contribuisce senz’altro, accanto alle toghe di cui sono ammantati i protagonisti del processo, alla “ liturgia “ dell’iter procedimentale, alla solennità dell’udienza, al segreto quasi mistico della camera di consiglio, a conferire all’aula, ove si amministra giustizia, un’aurea di sacralità.
Del resto la funzione del giudicare è quasi divina; il giudizio sul proprio simile è, tra le attività umane, quella che forse avvicina più l’uomo a Dio. Il giudice, nonostante senta dentro di sé tutte le debolezze e fors'anche le bassezze dell'uomo, deve essere tanto sicuro e convinto del suo dovere e della sua funzione da dimenticare, ogni volta che pronunzia la sentenza, l’ammonimento che gli viene dal discorso della montagna: noli iudicare.
Quello che, invece, è forse discutibile nella geografia dell’arredo dell’aula giudiziaria è proprio quella collocazione del crocifisso alle spalle dei giudici e di fronte, quindi, al solo giudicabile.
Esso dovrebbe, all'opposto, essere collocato di fronte all’emiciclo o sullo scranno della Corte, in guisa che, guardandolo, il giudice vi scorga costantemente il simbolo dolente dell’errore giudiziario e del peccato d’orgoglio nel quale può incorrere, l’invito a giudicare con umiltà e non dimenticare mai che è incombente il tremendo pericolo di condannare un innocente.
L'anatomia dell’errore giudiziario spesso dimostra che esso è l'effetto inconsapevole proprio di questo peccato d'orgoglio: il magistrato che ha infilato una strada, che ha sposato una tesi, si rifiuta talora di ascoltare le ragioni di chi vuol dimostrargli che è sbagliata.
Il nostro rito giudiziario ed ancor più alcune inveterate e malintese regole di galateo forense sembrano fatte apposta per indurre nel giudice questo vizio capitale. Pensiamo alle consuete tradizionali formule di ossequio con cui noi avvocati siamo soliti chiamare i giudici ( “eccellentissimi”, “ illustrissimi “ ) e le locuzioni di esagerata umiltà ( “voi mi insegnate”, “io ricordo a me stesso” ). 
In qualche atto giudiziario è possibile cogliere, in trasparente filigrana, la convinzione inconscia di chi ritiene che, a mutare d’avviso e ad abbandonare un’ipotesi accusatoria dopo averla coltivata, ne soffra la dignità della giustizia o forse, meglio, il suo amor proprio.
Quanto equilibrio e quale serenità di giudizio abbiamo potuto apprezzare, invece, in quei casi in cui il Pubblico Ministero – dopo aver sostenuto scrupolosamente in giudizio l’accusa – ha concluso per l’assoluzione in coerenza con le emergenze dibattimentali; o quando, ergendosi, il Procuratore Generale ha rinunziato all’impugnazione o, nel civile, quando il Giudice ha, re melius perpensa e con onestà intellettuale, con la sentenza definitiva, revocato una sua precedente erronea ordinanza. 
Ed, allora, a pensare all’errore giudiziario, mi sovviene il caso del povero fornaretto di Venezia.
<< Recordève del povero Forner >> ( ricordatevi del povero fornaretto ). Così, secondo la tradizione popolare, si scriveva in calce alle sentenze capitali emesse dal tribunale dei Quaranta al Criminale nella Repubblica di Venezia nel sedicesimo secolo.
Il costume di raccomandare quella formula di chiusura delle sentenze, innanzi alla sottoscrizione dei giudici, sarebbe invalso in relazione ad un grave errore giudiziario, di cui vi è ancor oggi traccia nella memoria del popolo veneziano.
Narrano le cronache il caso di Pietro Faciol, giovane fornaio, detto perciò il Fornaretto, che, in una mattina del 1507, mentre stava avviandosi a bottega, s’imbatté in un uomo assassinato per la via. Il giovane si chinò sul cadavere e scorto accanto ad esso un pugnale di lama finissima, lo raccolse e se ne impossessò. Intanto, sopraggiunsero gli sbirri, che, avendolo veduto chinato sul morto, lo fermarono e trovatagli addosso l'arma insanguinata lo condussero avanti alla giustizia. Quel complesso di fatali indizi più poté delle proteste di innocenza del povero fornaio avanti al tribunale ( detto dei Quaranta al Criminale ). La tortura - si narra - poi, gli strappò la confessione della colpa che egli non aveva commesso e fu condannato ad essere impiccato. L’innocente salì con fermezza sul patibolo, fra le due Colonne della piazzetta di San Marco, nel pomeriggio del 22 marzo 1507. Non trascorsero però molti giorni che per un imprevisto accidente venne a scoprirsi il vero omicida.
Non dissimile da quella formula di chiusura delle sentenze capitali invalsa nella civilissima Venezia del sedicesimo secolo, è l’ammonimento che ci viene dal simbolo, laico e non solamente religioso, della croce.
salvatore timpanaro
avvocato in nicosia