MA NOI NON SIAMO MERCANTI...DI DIRITTO !

 

 

Articolo pubblicato su La Rivista dell'Avvocatura - Periodico del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Caltanissetta



Ma noi non siamo mercanti…di diritto

Funzione e ministero nella professione forense: attività non riducibile in termini mercantili. L’impresa traduce e declina il valore mercato, la professione traduce e declina il valore uomo.

Il modello istituzionale ed organizzativo della professione forense in Italia è disegnato in un quadro normativo la cui radice, tuttora viva, risale ai primi anni ’30. 
Il nucleo fondamentale della normativa, non ancora ammodernato, è costituito, infatti, dal regio decreto legge n. 1578 del 1933 ( cosiddetta Legge professionale), seguito dal regio decreto n. 37 del 1934, recante norme di attuazione ed integrative del primo.
Gli elementi qualificanti ed i tratti essenziali del modello sono:
1°- la riserva dell’esercizio professionale ai soli iscritti all’albo degli avvocati (Principio della natura protetta dell’attività);
2°- l’accesso alla professione tramite esame di abilitazione (non a numerus clausus);
3°- obbligo di preventiva pratica biennale;
4°- Principio di esclusività: tendenziale esclusività dell’attività professionale e incompatibilità con l’attività di notaio, il commercio, l’industria, l’impiego pubblico e privato, etc.;
5°- principi deontologici di dignità e decoro ispiranti la condotta professionale con conseguenti sanzioni disciplinari;
6°- sanzioni di carattere afflittivo personale e anche di natura espulsiva (cancellazione e radiazione), irrogate al termine di un procedimento espressione di una sorta di esercizio domestico della giustizia disciplinare;
7°- vigilanza sulla deontologia degli iscritti (controllo deontologico) e governo della tenuta degli albi affidati ad un apparato ordinistico: Consigli dell’Ordine stabiliti presso ogni tribunale e Consiglio Nazionale Forense, con sede in Roma;
8°- sistema tariffario per la remunerazione: remunerazione della prestazioni professionali sulla base di tariffe - inderogabili nei minimi e, salvo accordi diversi, vincolanti anche nei massimi - approvate con decreto ministeriale, previo parere del Consiglio di Stato ed elaborate con l’apporto del C. N. F.;
9°- normative minori per la disciplina di taluni particolari aspetti (ad esempio: gli esami per accedere alla professione; struttura ed funzionamento dei Consigli dell'Ordine e del Consiglio Nazionale Forense; scuole di specializzazione per le professioni legali; tra queste normative minori, spiccava per la sua singolarità la legge n. 1815 del 1939 che vietava l’esercizio in forma societaria della professione, divieto abrogato solo nel 1997 (legge 7 agosto 1997, n. 266, art. 24.1). 
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Il sistema vigente delinea e disegna una figura di avvocato in sintonia con il quadro socio-culturale e politico del periodo di elaborazione della normativa primaria e con l’idea di avvocato che essa esprimeva.
In tal guisa, l’accento è in particolare posto sulla natura protetta dell’attività, segno di un suo particolare modo d’essere che la accomuna a pochissime altre (tra cui quella di medico) e la distingue da tutte; non è un caso che l’indicazione programmatica iniziale della legge fondamentale sta nell’enunciazione di un divieto di esercitare per chi non sia iscritto all’albo (art. 1 rdl 1578/1933).
Del pari è dato rilievo essenziale alla sua specificità; tanto vero che nessuna altra attività può svolgersi in contemporanea con essa, diversa da quella di docente (universitario e non) e di avvocato degli uffici legali istituiti presso enti pubblici (art. 3, 4° comma, rdl 1578/1933 cit.).
Il mandato professionale (fiduciario ) si caratterizza ed è dominato dall’intuitus personae e questa è stata, per lungo tempo, la giustificazione nobile del divieto di esercizio in forma societaria, fino all’abrogazione dell’interdetto avvenuta nel 1997. 
Il modello radica saldamente l’esercizio dell’attività professionale nel paradigma privatistico negoziale, come rende evidente il riferimento ad una prestazione d’opera professionale (si parla esplicitamente di professione, ad esempio, negli artt. 3, 4, 20, 34, 38 del cit. rdl 1578/1933); ma contemporaneamente allude ad un suo possibile rilievo anche in una dimensione pubblicistica.
La medesima attività professionale sussunta nel contratto di diritto privato, quando si discute dei canoni etici di comportamento che la devono ispirare e guidare, diviene infatti funzione ed essa è, da un lato, qualificata alta, dall’altro accostata ad un momento della amministrazione della giustizia, secondo quanto risulta dall’art. 12, 1° comma, R.dl 1578/1933 cit. per il quale gli avvocati devono comportarsi con dignità e decoro <<come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia>>. 
Ed è sempre il cit. art. 12, 1° comma, che individua dignità e decoro quali canoni direttivi nell’adempimento del “ministero”; parola, quest’ultima, che rimanda ad un ufficio il cui nucleo è oggi reso evidente dalla carta costituzionale ove l’art. 24 riconosce il diritto di difesa come diritto fondamentale del cittadino ed implicitamente assegna,quindi, anche all’avvocato il ruolo di suo garante ed attuatore e dunque lo investe di un ruolo di rilievo pubblicistico .
L’esercizio della professione è concretamente condizionato alla prestazione di un giuramento, la cui formula, pur con evidenti toni enfatici, allude ad una funzione non prettamente mercantile laddove si afferma che occorre adempiere ai doveri professionali con lealtà, onore e diligenza <<…per i fini della giustizia e per gli interessi della Nazione>> (art. 12, 3° comma, RDL 1578/1933 cit.). 
E’ possibile, pertanto, enucleare una conformazione teleologica dell’attività avvocatizia verso obiettivi non meramente egoistici, sintesi di una doppia e contemporanea sua rilevanza nella dimensione privata e pubblica.
Le sanzioni previste per la violazione delle norme deontologiche, per gli eventuali abusi o le mancanze e, comunque, per i fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale spaziano dal semplice avvertimento, alla censura, alla sospensione dall’esercizio della professione, alla cancellazione, fino alla radiazione dall’albo.
L’autarchia disciplinare - che è garanzia essenziale di libertà dell’avvocato e, quindi, del cittadino, riflettendosi immediatamente la libertà della toga come baluardo della libertà tout court di tutti - consegna ad una sorta di giustizia domestica il potere di reprimere gli abusi: l’opinione consolidata e condivisibile ha costruito la teoria della competenza esclusiva dell’ordine professionale, sia nella elaborazione e fissazione delle regole deontologiche sia nell’attività di controllo del rispetto delle medesime da parte degli iscritti all’albo.
Ma quel che rileva al i fini di confermare – anche in relazione al sistema sanzionatorio – il principio che l’attività forense non è declinabile in termini puramente ed esclusivamente mercantili è la immaterialità di talune sanzioni minori: l’avvertimento e la censura.
Tramite esse è tipizzato un sistema di afflizione di carattere personale che utilizza, nei fatti, la lesione dell’onore professionale come strumento repressivo ed anche dissuasivo (di prevenzione generale e speciale, si direbbe in termini penalistici); le sanzioni dell’avvertimento e della censura compromettono, infatti, l’onore professionale, ma non determinano, nemmeno indirettamente, conseguenze economico-patrimoniali (diversamente dalla misure sospensive o espulsive che, all’evidenza, essendo causa di cessazione, inibizione di mandati professionali, determinano direttamente effetti economici) .
Il vigente sistema della tariffe (inderogabili nei minimi e vincolanti,in difetto di diverso accordo, per i massimi) rappresenta tuttora lo strumento che, secondo l’opinione quasi unanime degli avvocati, è indispensabile per preservare la professione da contaminazioni di impronta eccessivamente commerciale.
La pretesa equiparazione della prestazione professionale ad una qualsiasi prestazione di servizi e la supposta incompatibilità del vigente sistema con l’art. 49 Trattato CE, secondo le tendenze da cui muove la Commissione europea, tramite la Direzione Generale Concorrenza, per sostenere che il descritto modello istituzionale è da accantonare perché, soprattutto a causa del sistema tariffario creerebbe ostacoli e limiti alla libera circolazione dei servizi, non è affatto condivisibile.
L’opinione della Commissione è certamente errata perché il sistema tariffario è funzionale non soltanto agli interessi degli avvocati, ma anche a quello generale e dei destinatari delle prestazioni, nel quadro della salvaguardia di specifici valori di rilievo costituzionale.
Il problema sembra allo stato almeno accantonato dopo le recenti decisioni delle autorità comunitarie.
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Tuttavia, resta il fatto che non si può non prendere atto della contrapposizione esistente tra due modelli antitetici della professione: a) l’uno mercantilisticamente orientato, proprio della Commissione e di una parte della cultura europea; b) l’altro, in cui il dato imprenditoriale si sbiadisce e perde di consistenza, in quanto destinato a convivere con aspetti dell’attività professionale che rimandano ad una funzione di garanzia nell’amministrazione della giustizia ed all’esercizio di un ministero, piuttosto che ad un’attività economica.
Il modello di avvocatura che per fortuna sopravvive ancora in Italia - secondo il perdurante modello istituzionale sopra descritto nei suoi elementi principali - appartiene a questa seconda categoria: al di là dei luoghi comuni ed a prescindere da una diffusa aneddotica giudiziaria, è saldamente radicata nella cultura italiana l’idea dell’avvocato operatore di giustizia, prima ancora che homo oeconomicus.
Resta saldamente ancorata nella coscienza collettiva l’idea dell’essenzialità del compito riservato all’avvocato in un società democratica di attuatore del diritto costituzionale di difesa.
Orbene, se si ha presente il ruolo dell’avvocato quale strumento di attuazione di quei valori e di garanzia di quei diritti fondamentali, si deve conseguentemente concludere per la non riconducibilità della professione nello schema dell’impresa, perché mentre quest’ultima traduce e declina il valore mercato, la professione traduce e declina il valore uomo.

Avv. Salvatore Timpanaro
Foro di Nicosia